Monica Campagnoli


Controdemocrazia e società civile, nuove sfide per la politica del XXI secolo

(Intervista a Pierluigi Castagnetti, vice Presidente della Camera dei deputati,
www.andareoltre.org, n. 2  -2007)

 

Pierluigi Castagnetti, classe 1945, laurea in Scienze Politiche, già deputato ed euro-parlamentare, attualmente vice presidente della Camera dei deputati. Castagnetti, reggiano più che emiliano, è uno di quegli uomini che coniugano un forte senso pratico ad una costante tensione ideale, e d’altro canto non potrebbe essere diversamente per un politico cresciuto alla scuola di don Giuseppe Dossetti.

Oggetto dell’intervista è il saggio del politologo francese Pierre Rosanvallon (La contre-démocratie. La politique à l'âge de la défiance, Paris, Seuil, 2006), ed in particolare il concetto da lui introdotto: quello di ‘controdemocrazia’ intesa come il progressivo (ri)organizzarsi della società civile allo scopo di superare i partiti politici organizzandosi autonomamente e trasformandosi in una sorta di nuovo modello di classe dirigente.

Onorevole Castagnetti, lei considera questo fenomeno come una evoluzione naturale o ritiene piuttosto che vada intesa come una forma di sfiducia nel parlamentarismo e nella gestione delle istituzioni da parte dei politici di professione?

«Se l’allontanamento della società civile dalla politica italiana ha raggiunto il suo punto più alto subito dopo Tangentopoli anche l’esperienza di governo di centrodestra ha contribuito fortemente a mettere in crisi il rapporto tra cittadini e istituzioni. Visto come sono andate le cose in questi ultimi cinque anni, possiamo addirittura leggere la “scesa in campo” di Berlusconi del 1992 come un tentativo di forzare il sistema politico italiano e le sue forme di partecipazione esaltando il ruolo carismatico del leader. Paradossalmente questa deriva populista ha allontanato l’interesse dei cittadini dalla “cosa pubblica” facendo crescere la distanza tra la società e le istituzioni.

A questo si è unita una informazione che ha “distratto” e che ha presentato la classe politica, le istituzioni e le sue regole come dei pesi per la società. Il dibattito parlamentare è divenuto un ostacolo da aggirare. A tutto questo si è aggiunta una politica propagandistica che ha cercato, talvolta con successo, di incrinare la fiducia dei cittadini nello Stato.

Pensiamo in questo senso ai tanti messaggi dell’ultimo quinquennio. A quando è stato detto da un autorevole ministro che la mafia è un fenomeno che è sempre esistito e con cui si deve imparare a convivere. Oppure, a quando lo stesso premier ha consigliato ai cassaintegrati della Fiat di trovarsi un lavoro in nero, oppure a quando ha dichiarato in tutta semplicità che la legge per lui è più uguale che per gli altri, o, infine, a quando dalla sede del Comando Generale della Guardia di Finanza ha affermato che il cittadino è moralmente autorizzato a non pagare le tasse.

Tutto questo non è passato inosservato e la diminuzione della partecipazione all’attività dei partiti è certamente un fatto collegato a questo clima di sfiducia nella classe politica.

Inoltre, in questi ultimi anni abbiamo assistito ad un incremento delle persone che hanno iniziato a fare politica in modo non “tradizionale”. E’ aumentato l’impegno nel terzo settore, nelle associazioni di volontariato e questo è avvenuto soprattutto tra i giovani. Ne è nato un nuovo modo di partecipazione e di fare politica che è sfociato nella grande partecipazione alle primarie dell’Unione, e, più recentemente, nell’inaspettata partecipazione al referendum costituzionale.

Nei partiti ancora non si vede la piena capacità di raccogliere e di aprirsi a queste nuove istanze e questo ci deve far riflettere, soprattutto in questa fase in cui stiamo mettendo le fondamenta di quello che sarà il futuro partito democratico italiano. Un nuovo soggetto che dovrà saper accogliere queste nuove istanze e domande di partecipazione».

Il Parlamento, inteso come il centro legittimante dalla tradizione politica liberale di fine Ottocento, sarà capace di adeguarsi alle grandi trasformazioni in corso e, soprattutto, le sembra che il dibattito parlamentare abbia già recepito i temi che caratterizzano questo inizio di XXI secolo?

«I parlamenti sono già oggi molto diversi rispetto a quelli della fine dell’Ottocento. E’ cambiata profondamente la società e, di conseguenza, le sue forme di rappresentanza. La novità di questo ultimo decennio è senza dubbio il proliferare dei poteri, locali e sovrastatali – organizzazioni internazionali, istituzioni europee, autorità indipendenti, regioni – che con la loro azione, legittima, erodono dall’alto e dal basso le funzioni del parlamento.

 Oggi più di allora, per usare una nota espressione di Hegel il Parlamento deve essere il “porticato tra lo Stato e la società civile”. Un “Porticato” e non più un “palazzo” del potere. Il parlamento deve essere sempre di più il luogo dove le grandi questioni su cui si interroga la società trovano ascolto. E lo si nota dal fatto che sempre più nel dibattito parlamentare sono entrati i temi della bioetica, del terrorismo, della globalizzazione».

Onorevole Castagnetti, secondo lei c’è una riforma che, in questo momento, potrebbe agevolare un migliore funzionamento dell’istituzione Parlamento in Italia?

«Per migliorare il funzionamento del Parlamento italiano non servono grandi riforme. Semplici applicazioni di norme già presenti nel regolamento e mai utilizzate possono consentirci di lavorare in maniera più efficace.
Il modello è sicuramente quello del Parlamento europeo dove il calendario dei lavori è fissato ogni anno su proposta della conferenza dei presidenti dei gruppi parlamentari, in modo da poter programmare su tempi più lunghi, ed escludere le sovrapposizioni temporali tra le riunioni delle commissioni e le sedute dell’aula.

Dovremo ragionare anche sulla posizione del Governo in Parlamento, che è ancora troppo debole rispetto all’organizzazione dei lavori ed alla possibilità di prendere decisioni rapide. Dobbiamo assicurare al Governo tutti gli strumenti necessari per consentirgli di dare attuazione al suo programma e all’opposizione riconoscere il diritto a tempi e spazi certi per svolgere la sua funzione di critica e controllo attraverso un vero e proprio statuto dell’opposizione».

Domenico Cella


Partito democratico: riflessioni sulle regole per l’elezione del 14 ottobre

 

10 settembre 2007

 

Auguro ogni bene al nuovo Partito democratico, per se stesso e per l’intero sistema politico italiano, attendendo che anche nel centrodestra si produca qualcosa di simile, una vera e propria emulazione a chi fa meglio per dare compiutezza al bipolarismo italiano. Espandendo naturalmente la partecipazione democratica, che sappiamo tanto preziosa per dare un senso e un sicuro avvenire ad ogni prospettiva di  governabilità del sistema politico-statuale. 

Intendo per l’appunto esaminare alcune regole che presiedono all’elezione del 14 ottobre prossimo, chiedendomi se aiutano o no la formazione di un nuovo soggetto  politico “grande” ma anche “democratico”.

Quel giorno verranno eletti i componenti dell’Assemblea costituente nazionale del nuovo partito e il suo primo Segretario (ma anche le prime assemblee e i primi segretari regionali).

Un apposito Regolamento recita che l’assemblea nazionale approva il Manifesto e lo Statuto del Partito e soprattutto “assolve ad ogni altra funzione attribuitale dalle norme transitorie e finali dello Statuto”. Insomma, potrà fare moltissimo, a sua discrezione.

Potranno partecipare al voto, sia per l’Assemblea sia per il Segretario, tutti i cittadini italiani che al 14 ottobre abbiano compiuto sedici anni.

E’ una grande novità: a parte i sedici anni, non votano corpi “scelti” di cittadini come gli iscritti o i soci (dei partiti che si fondono) ma ogni cittadino simpatizzante che desidera partecipare.
Non è chiaro se questa libertà di voto (attivo) ci sarà anche in seguito, o se invece la partecipazione al voto del 14 ottobre varrà a precostituire la base dei futuri iscritti o soci, che anno per anno verrebbero poi chiamati a confermare l’adesione.
Dal punto di vista della libertà di voto attivo,  comunque, il nuovo partito parte  bene, con una decisa innovazione.

Si può dire altrettanto dal punto di vista della libertà di voto passivo? Della libertà cioè di candidarsi?

Secondo il Regolamento adottato, ci si candida all’Assemblea nazionale tramite liste da presentare nei territori dei vecchi Collegi uninominali (quelli in vigore sino alle penultime elezioni politiche).

Le liste sono bloccate e l’attribuzione ai singoli candidati dei seggi conquistati dalla lista avviene secondo l’ordine di candidatura. Sospendo il giudizio sulla mancanza di preferenza/e.

Mi ha colpito un’altra ben più rilevante circostanza: ogni lista deve necessariamente indicare la persona sostenuta come candidato alla carica di Segretario nazionale; quest’ultimo dichiara di accettare la lista o la lista non può essere presentata.

In concreto, un gruppo di cittadini può promuovere una lista all’Assemblea solo diventando partigiana di questo o quel candidato Segretario e ottenendo il suo gradimento.  

Si potrà osservare, in concreto, che difficilmente un candidato Segretario in cerca di voti si rifiuterebbe di  accettare una lista: obietto che i nostri politici sono lontani, lontani e che entrare in contatto con loro è un problema per tutti; che ogni esponente politico di un certo rilievo ha già una propria corte esclusiva, che con qualche problema accetterebbe nuove inclusioni (una o più liste del territorio che, pur sorte  spontaneamente,  volessero condividere i favori del laeder coi suoi supporters già consolidati).

Ma soprattutto conta  la piegatura del processo di mobilitazione politica:  l’Assemblea nazionale del nuovo partito non sarebbe in qualche modo, almeno in parte, creazione propria dei cittadini elettori simpatizzanti, ma ancora una volta creazione di leaders, che nel nuovo partito riproducono le proprie cordate di fedeli.

Il numero dei elettori votanti non è qualificativo, da solo, di un processo democratico di mobilitazione politica: tanti elettori votanti sì, ma per confermare una volontà e un potere già dati, non per ispirarli,oinfluenzarli e condizionarli ed eventualmente modificarli.   

Poco conta poi, anzi, conta in peggio, che quel potere già dato sia anche un potere “diviso” (tante liste di capi collegate ad un unico candidato Segretario per controllarlo).

Specialmente in un momento costituente, mi sarei aspettato ben altra fiducia nella spontaneità della società e dei territori: dove sono le associazioni, i movimenti, i gruppi che sembravano in un primo momento volersi autonomamente mobilitare in una grande prova di democrazia politica?  Ci si può stupire della loro assenza?

Sembrerebbe non ci sia vera libertà di voto passivo (di candidatura) nemmeno per gli aspiranti Segretari, almeno quelli che non dispongano già di una rete consolidata di supporters.

Recita il citato Regolamento: “ le schede…contengono una colonna per ciascuna lista, all’interno della quale sono presenti, nell’ordine, dall’alto in basso, i nominativi dei candidati di collegio, preceduti dal candidato alla carica di Segretario nazionale sostenuto dalla lista”.
Basterà apporre un segno entro una colonna per indicare sia la lista sia il Segretario preferiti.

In base a tale disposto gli elettori del 14 ottobre non si troveranno in mano due schede, una con l’indicazione dei candidati a Segretario nazionale, l’altra con le liste (sia pure collegate a un candidato Segretario) per l’Assemblea nazionale. Di conseguenza, i candidati a Segretario potranno essere votati solo nei Collegidove esista, dove siano riusciti a creare una lista ad essi intestata (mobilitando candidati di lista, raccogliendo le normali firme di sostegno, ecc.)

Da questo punto di vista per alcuni aspiranti Segretari del 14 ottobre non c’è proprio storia: i loro consensi potenziali in giro per il paese non verranno nemmeno contati; per altri potrebbero non venire contati in alcune zone del paese

Assemblee e Segretari regionali vengono eletti con gli stessi meccanismi illustrati per l’Assemblea e il segretario nazionali (la scheda è però diversa).  

P.S.  Sarebbero preziosi contributi di arricchimento e anche valutazioni e motivazioni difformi.



Domenico Cella

L’oligarchia nei partiti: un destino?

(Introduzione a Roberto Michels, La democrazia  e la legge ferrea dell’oligarchia, Bologna, dicembre 1991)


Perché un testo profano (un classico della sociologia politica) in questa vigilia religiosa? Perché un testo (sulla degenerazione oligarchica delle nostre democrazie) così aspro e talora disperante, proprio quando il nostro cuore è preso dalla speranza di bene, la speranza aperta dall'irruzione nel tempo storico del Dio incarnato?

Guardiamo al testo e al suo autore, rispettandoli nella loro dignità e verità.

Il saggio, del 1909, è una lucida rappresentazione della vicenda della socialdemocrazia tedesca.
Rimarginati i guasti prodotti dagli anni della clandestinità durante la repressione antisocialista, la SPD è, all'epoca, una organizzazione potente autofinanziata, centralizzata, con una struttura funzionariale che si estende dal centro alla periferia ed assicura al gruppo dirigente un saldo controllo sul partito.

Il partito è potente ma la sua politica sta arretrando, sino a precipitare, tra poco, nell'appoggio patriottico all'espansionismo bellico dello Stato tedesco.

A differenza dei partiti conservatori (in Germania, allora, a forte base aristocratica), i movimenti di emancipazione sociale, osserva Michels, nascono con motivazioni e soprattutto con reali conformazioni democratiche: la base della loro organizzazione sta nell'eguaglianza di tutti gli associati che godono tutti degli stessi diritti e delle stesse possibilità.

Ben presto tuttavia ogni potere effettivo, anche in questi movimenti, trasmigra nei soli capi, che dall'iniziale posizione servente si rendono indipendenti ed emancipati dagli associati. Gli associati non solo rinunceranno a dirigere di persona gli affari dell'amministrazione. Diventerà loro impossibile anche il solo controllo dell'operato dei capi. Ecco l'oligarchia, gruppo piccolo e chiuso di dirigenti col massimo di discrezionalità rispetto a tutti gli altri nel parlare e fare secondo loro testa ma a nome di tutti gli altri, col massimo di opportunità nel disporre a proprio piacere di tutti gli altri.

Guardiamo agli snodi della tendenza secondo l'analisi di Michels (una tendenza, lo sottolineiamo, che osserva nei partiti democratici, ricavandone un significato ben maggiore rispetto all'analogo svolgimento in un qualsiasi movimento conservatore).

Il processo è avviato dalla formazione di un corpo direttivo di professione. Esso viene acquisendo qualità (esperienza e cultura, migliori condizioni di vita) che lo fanno effettivamente superiore a tutti gli associati e soprattutto lo spingono ad interiorizzare un sentimento di separatezza ed alterità rispetto agli associati.

La destinazione delle risorse dell’organizzazione politica (i finanziamenti, le carriere, ecc.) viene centralizzata. Centralizzazione e professionismo si rafforzano (e si irrigidiscono) reciprocamente. Il corpo direttivo di professione diventa stabile e soprattutto inamovibile. Esso é spesso effettivamente non sostituibile. Può contare sulla indifferenza e talora sulla deferenza delle masse (che nasconde la loro reale inferiorità anche psicologica); ha gli argomenti anche materiali per condurre alla ragione i dissenzienti (sino all'espulsione dall'organizzazione). "Le elezioni dei capi da parte delle masse si compiono con tali metodi, e sotto così forti suggestioni e altre costrizioni morali, che la libertà di decisione delle masse appare in sommo grado limitata. E se ciò non appare sempre dalle elezioni, è però un fatto costante nelle rielezioni ".

Le decisioni importanti prese se non "en petit comité", sottoponendo ai soci solo il fatto compiuto; gli accordi segreti dei capi tra di loro e l'imposizione del silenzio attorno a tali accordi: ecco i piccoli frutti quotidiani dell'oligarchia su piede formalmente democratico, un sistema in realtà assai prossimo a quello conosciuto nella storia degli Stati come plebiscitario o bonapartistico.

L’oligarchia completa il proprio ciclo scegliendosi da sé i propri successori: un sintomo del passaggio al sistema della monarchia per diritto ereditario.

Quali le conseguenze dell'oligarchia sulla qualità della politica del partito? Nell'ampia gamma delle possibilità discrezionali dell'oligarchia domina, tra tutte, il poter variare, talora impercettibilmente, talora apertamente, i fini originari dell'organizzazione di partito (sino alla loro sostituzione).
Nei partiti democratici la trasformazione del mezzo partito (il formarsi dell’oligarchia ne è il segno più eloquente ed efficace) determina inevitabilmente la trasformazione del fine, l'abbandono della trasformazione dello Stato in senso democratico.

E infatti "una tattica energica ed audace " metterebbe in gioco " l'esistenza economico-sociale di molti capi e sottocapi di partito" e l'oligarchia si destabilizzerebbe. Di qui il suo bisogno di pace e la serie innumerevole di arretramenti e compromissioni, sino all'amalgamazione del ceto dirigente del partito democratico coi ceti dominanti. Dirimpetto alle masse sole, conclude Michels, il duce da solo, qualunque politica persegua, non soccombe mai.

Se qualche volta vediamo infrangersi l'oligarchia dei duci e le masse sollevarsi e rifiutare obbedienza, dietro questi avvenimenti si cela sempre soltanto la lotta per la conquista del potere fra un gruppo di duci ed un altro. "Ma se i capi si stringono compatti di fronte alle masse, l'esperienza storica ci autorizza a dire che, fino ad oggi, i gruppi oligarchici sono usciti vittoriosi da questi cimenti ".

E’ difficile non riconoscere alla poderosa ricostruzione di Michels una forte aderenza coi tempi che viviamo. A questo riconoscimento non dovrebbero far velo i più ampi spazi di autonomia personale che caratterizzano, rispetto ai suoi, i nostri tempi (spazi che, comunque, rimangono così estranei ed indifferenti alla vicenda politica, spazi sempre suscettibili, vissuti privatamente, vissuti anche solo socialmente, di corrompersi).

Sul terreno proprio della vicenda dei partiti politici, non dovrebbe far velo nemmeno la generale scomparsa di partiti compatti: la conformazione per cordate ostili e turbolente dei partiti contemporanei non smentisce la ricostruzione di Michels e soprattutto non diminuisce la violenza delle relazioni politiche (precisamente, professionismo, centralizzazione, inamovibilità e trasformismo possono benissimo convivere con ceti dirigenti di partito poco coesi, anzi, amalgamandosi insieme, aumentare la gratuità e la volgarità del dominio dell'oligarchia politica).
Dovremmo semmai aggiungere, rispetto ad allora, la straordinaria superiorità di risorse a disposizione delle nostre èlites dirigenti per consolidare il proprio potere in faccia agli associati di partito (e, non fa differenza, o ne fa poca, in faccia a tutti i cittadini): Michels parla di superiorità culturale, esperienza degli affari della cosa pubblica, vantaggi materiali per i dirigenti di un partito operaio allora appena tollerato; pensiamo alle possibilità per dirigenti di partiti di governo, negli Stati contemporanei col loro raggio virtualmente illimitato di intervento, in uno Stato con una burocrazia debole e facilmente colonizzabile!

Lo scenario descritto da Michels rimane dunque quello nel quale anche noi ci agitiamo, qualche volta dalla parte dell'oligarchia, qualche volta dalla parte di chi la subisce, qualche volta dalla parte di chi vuole reagirvi ma che, come insegna Michels, corre il rischio di diventare l'ennesimo gruppo di duci in concorrenza con altri.

In questo scenario noi consumiamo una parte non irrilevante della nostra esistenza, delle nostre pulsioni oscure e dei nostri limiti, ma anche delle nostre abilità e, nonostante tutto, della nostra speranza di bene.

Perché abbandonare tutte queste cose a un triste destino umano, a una storia circolare di formiche impazzite che ritornano sempre sui propri passi, ad un inizio disperante sempre eguale?
Perché poi scindere la storia, l'unica storia di salvezza? Perché non sentire e vivere anche queste nostre piccole cose sul piede dell'inizio, del Natale che apre realmente un futuro? E poi: davvero, dell'azione delle strutture, dei movimenti e dei partiti politici, delle nostre "regolarità" e delle nostre "irregolarità", di questo nostro miscuglio di curiosità strumentale verso gli altri ma anche di desiderio di autentica fraternità, nulla, proprio nulla, come impresso nella personalità di ciascuno d noi, meriterà la pienezza della resurrezione?

La nostra vita sarebbe altrimenti disperante. E' disperante il percorso intellettuale e politico di Michels.

La sua vicenda terrestre lo vede, negli anni tra gli studi universitari e il 1907, sindacalista e militante socialista: " Ogni partito socialista è per se stesso un partito morale ma "si è solidali solo contro qualcuno"; il gruppo solidale - partito, sindacato, cooperativa - ha una duplice funzione, "essere supremo educatore alla solidarietà parziale" e nello stesso tempo formare "l'ostacolo più formidabile contro la solidarietà generale ed universale ".

Un sogno, che già si infrange contro le divisioni nel seno stesso del proletariato tedesco e le molteplici esperienze concrete di socialismo: "Uno dei pericoli maggiori per il socialismo consiste appunto nell'ipotesi, da non escludere troppo in fretta, che a poco a poco una serie di categorie operaie, grazie sia all'aumento generale della ricchezza sociale che agli energici sforzi che i lavoratori stessi compiono per elevare il proprio tenore di vita, raggiungano uno stadio che in fondo le soddisfi"; " Avevamo il socialismo di stato, il socialismo municipale dell'acqua e del gas, il socialismo massonico, il socialismo integrale e integralista, e tanti altri, con diversi aggettivi. Ora, ufficialmente difeso dal più grande partito socialista (quello tedesco), abbiamo il socialismo patriottico ".

All'indomani del congresso socialista internazionale di Stoccarda (1907), che sancisce l'impossibile solidarietà operaia sul discrimine dell'internazionalismo antimilitarista, Michels abbandona il partito.

Inizia il periodo del " sociologo ", dello studioso alla ricerca di leggi sociali generali, a partire da una reinterpretazione della vicenda della socialdemocrazia tedesca come caso cruciale di un fenomeno universale.

Il saggio qui pubblicato anticipa l'opera fondamentale di Michels, “La sociologia del partito politico”
.
Nei suoi lavori Michels delinea non solo una tendenza, propone una legge sullo sviluppo organico dei partiti politici: "L'evoluzione stessa rende irrisoria ogni misura profilattica che tenda ad ostacolare il formarsi dell'oligarchia. Se vi sono statuti o regolamenti destinati a porre un argine al dominio dei duci, non saranno i duci, ma bensì le leggi a cedere, a poco a poco, il campo".

Insomma, è ipotecato il presente e soprattutto è ipotecato il futuro.

La parabola di Michels si conclude con l'adesione, nel 1928, al fascismo (in quell'anno è chiamato alla cattedra di economia generale e corporativa alla facoltà di Scienze politiche di Perugia, una delle tre costituite dal fascismo per formare la nuova classe dirigente del regime).

Quasi cinico l'adattamento della "legge ferrea dell'oligarchia " alla mutata situazione: alla mera apparenza democratica dell'oligarchia negli stati rappresentativi è possibile ed anzi desiderabile contrapporre un dominio monopolistico (più) "franco, chiaro, concreto, diretto". Ritorsione estrema dell'intellettuale ad un esito della storia così diverso da quello inizialmente programmato? Non tollerabilità del limite?

Secondo alcuni l'approdo intellettuale e politico al fascismo sarebbe stato influenzato dalla scarsa attenzione di Michels alle specifiche determinazioni sociali costitutive dell'élite politica. Negli studi sulla socialdemocrazia tedesca egli avrebbe in fondo confuso il problema della democrazia nel partito (secondario, ed anzi mal posto) con quello (decisivo) della democrazia entro i rapporti di dominio economico.

Allo studioso che, credendo di svelare la natura di dominio persino del ceto dirigente operaio, alla pari dei partiti borghesi liberal-democratici, non sarebbe rimasta altra strada che l'adesione al regime borghese meno mistificante, quello fascista.

E infatti: "Le questioni di democrazia e di oligarchia hanno un significato preciso che è loro dato dalla differenza di classe tra capi e gregari. La questione diventa politica, acquista un valore reale cioè e non più solo di schematismo sociologico, quando nell'organizzazione c'è scissione di classe. Ciò è avvenuto nei sindacati e nei partiti socialdemocratici. Se non c'è differenza di classe la questione diventa puramente tecnica (l'orchestra non crede che il direttore sia un padrone oligarchico), di divisione del lavoro e di educazione". E ancora: "Altra è la democrazia nel partito e altra è la democrazia nello Stato: per conquistare la democrazia nello Stato può essere necessario (anzi è quasi sempre necessario) un partito fortemente accentrato" (Gramsci).

Non seguiremo questi ragionamenti (all'origine di una grande tragedia). Da Michels noi traiamo piuttosto la lezione che ogni organizzazione partitica non solo non rispecchia meccanicamente, nella sua organizzazione e nella sua politica, il sistema delle diseguaglianze societarie, non solo che essa può essere un formidabile produttore di diseguaglianze al proprio interno, ma anche che può, nel suo insieme, presentare al saldo della storia l'ennesima incompressa diseguaglianza.

Dipende dalle funzioni, dalle caratteristiche strutturali, dai processi interni dei singoli partiti (forse più che dalle caratteristiche dei sistemi politici, che adattiamo, talora disinvoltamente, alla nostra misura).

Conviene guardare alle cause profonde addotte da Michels per spiegare la formazione dell'oligarchia (e soprattutto per affermare, più che una tendenza, più che una legge tendenziale, nella quale trovare dei varchi, esercitare una nostra motivata speranza, una legge ferrea, un triste destino).

L’organizzazione, l'organizzazione basata sul principio del minimo mezzo, sostiene Michels, è l'arma naturale concessa ai deboli nella lotta contro i forti. Che vuol dire minimo mezzo, maggior risparmio possibile d'energia per gli associati a un partito politico? Vuol dire crescente divisione del lavoro, nella quale ad alcuni in particolare sono affidate le funzioni più ricche dell'organizzazione politica e inevitabilmente i relativi poteri, e a tutti gli altri risparmiata, per essere semplici spettatori, la fatica di fare politica.

La divisione del lavoro conduce inevitabilmente alla delega. Alla crescita della divisione del lavoro corrisponde un depotenziamento progressivo della volontà delegante, sino al totale annullamento di sé. E’ difficile dar torto, in questo, a Michels (molto più incerta, anzi da molti studiosi contraddetta, l'influenza determinante della crescita di dimensione dell'organizzazione politica sul livello di complessità interna).

Eppure, per tutto quello che abbiamo imparato vivendo intensamente in un partito politico, anche il grado, le modalità e gli effetti della divisione del lavoro nei partiti possono essere controllati, se lo si vuole, se esistono interessi e sensibilità diffuse che lo richiedono. Si può influire a monte, per esempio diffondendo nella comunità (nella società e nei partiti) le conoscenze, le competenze e le abilità che fanno un buon politico (per evitare l'indispensabilità di quelli in carica).

Si può diversamente programmare la stessa complessità interna dell'organizzazione di partito, per esempio rafforzando gli ambiti di servizio e di proposta alla discussione dei soci e dei cittadini interessati rispetto a quelli della pura decisione e della gestione della decisione. Si può "non lasciar troppo a lungo le stesse persone in una posizione di autorità" ed impedire che esse acquistino la " convinzione di non poter essere che loro gli eletti del popolo ".

Si può fare, insomma, l'organizzazione politica che non risparmia partecipazione e risorse per la partecipazione  politica.

E se un'ulteriore lezione vogliamo cogliere sia pure indirettamente da Michels, è che la società dell'opulenza può e deve ben permetterselo, facendo tesoro della (ma noi vorremmo dire soprattutto partecipando intimamente alla) dolorosa esperienza dei "deboli" e dei poveri del tempo di Michels.


Lasciamolo ora riposare in pace; oltretutto, negli ultimi anni della sua vita, ebbe il coraggio del distacco ed anzi dell'opposizione al fascismo apertamente bellico ed espansionista, un ritorno alle buone origini. Noi affrettiamo nella speranza il nostro cammino. Non c'è forse qualcuno che scruta i nostri passi lungo l'impervio sentiero, si duole delle nostre cadute come di una sua caduta, ci tende la mano e ci aiuta a rialzarci?


Rolando Dondarini

Fonti normative medioevali / Lo statuto comunale come strumento di trasmissione
dell’immagine politica ed etica della città
 

(in Imago Urbis. L’immagine della città nella storia d’Italia, Atti  del convegno internazionale (Bologna 5 - 7 settembre 2001), a cura di F. Bocchi e R. Smurra, Roma 2003, pp. 271-284)

 

Dei numerosi significati oggi attribuiti al termine statuto il più conforme alle sue origini è quello di codice normativo a raggio limitato, teso a recepire le istanze di comunità circoscritte (castra e collegia licita).

Questa sua attribuzione comune che lo interpreta come risposta alle esigenze concrete di società delimitate si espresse al massimo grado nelle cosiddette leggi municipali (1), ovvero in quelle norme che furono promulgate a suggello dell’autodeterminazione conquistata da numerose comunità cittadine durante le fasi di formazione delle autonomie comunali.

Fu una genesi indotta dalle esigenze di gestione di società articolate e complesse che nel loro sviluppo si trovarono necessariamente a dover regolare la convivenza secondo aspetti, criteri e riscontri particolari e locali, non adeguatamente compendiati da leggi generali, che fossero o meno uniformate al diritto comune (2).

Dato l’intento di fissare o prefigurare capacità e gradi decisionali e i derivanti spazi di potere, costituì ovunque un atto politico; ma essendo quasi sempre l’esito di contrapposizioni e conflitti tra intenti normalizzatori a livello centrale e resistenze particolaristiche a livello periferico, si espresse con maggior efficacia e frequenza laddove premesse, circostanze e vicende consentirono più spiccate forme d’autonomia cittadina (3). È per questi motivi che il fenomeno statutario si manifestò con più vigore e intensità nelle aree urbanizzate dell’Occidente europeo in concomitanza con la ripresa cittadina del II millennio.

Ciò detto, occorre ammettere che è sempre rischioso limitarsi agli aspetti più noti e generali per un fenomeno come quello della produzione statutaria che, benché condizionato da un’indubbia circolazione di esemplari ed esperti, fu essenzialmente espressione del particolarismo di gruppi comunitari (4). Si deve insomma mantenere la consapevolezza di quanto possa essere fuorviante seguire il fenomeno delle origini e dello sviluppo delle normative locali solo dal versante più in luce di quelle di emanazione cittadina, che ovviamente non possono racchiudere tutta la varietà e la ricchezza delle promulgazioni che si produssero anche in altri contesti (5). È dunque soltanto per i suoi limiti tematici che questo contributo focalizzerà il suo obiettivo sulle aree e sui tempi del fenomeno comunale cittadino, cominciando a circoscriverne i caratteri nel più vasto contesto della rinascita urbana del Basso Medioevo europeo (6).

Già da secoli in tutto l’Occidente medievale i vertici delle comunità cittadine e rurali si erano dovuti occupare della gestione delle questioni comuni, supplendo così all’assenza, all’inconsistenza o alla temporanea latitanza di eventuali istituzioni centrali. Per altre vie nelle concentrazioni urbane sopravvissute alla ruralizzazione altomedievale alcune associazioni di categorie produttive avevano mantenuto in vigore norme orali o scritte che, limitandosi alla cerchia degli associati, avevano una valenza collettiva, ma non pubblica.

Con la rinascita e lo sviluppo delle città coloro che ne erano alla guida (vescovi, famiglie eminenti e i loro entourage) furono sollecitati ad affrontare la crescita di complessità delle loro società, approntando sistemi organizzativi adeguati a favorire una convivenza ordinata e a prevenire o reprimere i conflitti interni. Che fossero o meno legittimati a farlo, edificarono le impalcature amministrative dei comuni, che già nelle loro intelaiature implicavano un apparato di regole, in parte tratte dalle consuetudini, in parte concepite ex novo.

L’emanazione degli statuti comunali corrispose alla redazione per iscritto di tali prescrizioni e norme. Ciò che distinse i nuovi corpi statutari cittadini dalle normative delle associazioni produttive già esistenti o successive fu pertanto la loro ampiezza di destinazione, che, nell'ambito del territorio sottomesso (districtus), doveva assumere una valenza generale e pubblica, dando luogo a veri e propri ordinamenti giuridici a carattere territoriale, che, presumibilmente, nei primi tempi suscitarono qualche perplessità e critica tra i dottori del diritto (7) e l’opposizione netta delle istituzioni tradizionali. È sotto questo aspetto che gli statuti sono stati di recente definiti elementi essenziali di un “diritto senza stato” (8).

Paradossalmente si potrebbe anche affermare che, per un certo tempo e in alcune circostanze, furono leggi “fuorilegge”, prive di una legittimazione canonica e riconosciuta da parte delle matrici ufficiali del diritto (autorità imperiale e dottori). Ma anche in questo caso occorre diffidare delle eccessive generalizzazioni.

Certo, prima di divenire unanime, il loro riconoscimento passò attraverso alcune tappe fondamentali che corrisposero a quelle del crescente declino del potere imperiale e del contestuale consolidamento delle compagini politico territoriali facenti capo a centri urbani, ma comunque derivò anche da un progressivo coinvolgimento di giuristi e dottori del diritto sia nelle stesure di nuovi codici sia nell’interpretatio di vecchi testi (glosse e consilia) (9).

Le finalità normative degli statuti cittadini hanno sovente fatto trascurare il loro carattere politico 10), verificabile almeno sotto due aspetti: quello a prevalente valenza interna, derivante proprio dall’assunzione e dall’attribuzione della potestas statuendi (11), ovvero della facoltà di imporre regole tendenti a conformare i comportamenti nel nome dell’interesse pubblico (12) nonché di prevedere livelli decisionali per governare la quotidianità e per individuare reati e sanzioni, e quello a più ampio raggio di ricaduta, quale forma di esibizione o di rivendicazione di un’identità civica e di una capacità di autodeterminazione nei confronti di istituzioni e autorità concorrenti.

In relazione a quest’ultimo aspetto, era la stessa vigenza dei codici ad attestare l’autonomia politica di una comunità capace di disciplinarsi. Infatti l’arbitrium nelle sue diverse manifestazioni e traduzioni pratiche costituiva l’essenza stessa degli statuti (13), quale strumento con cui rendere concreti, difendere o imporre capacità deliberative, obblighi e divieti: dalla nomina di ufficiali pubblici (arbitrium eligendi), al conferimento dei loro incarichi e delle relative competenze dispositive e coercitive (arbitrium officialis) (14). Avere uno statuto significava dunque disporre del relativo arbitrium, anche quando la sua applicazione e operatività erano scadute per disuso e invecchiamento delle norme (15).

Di tutti questi aspetti si possono ricavare indizi dai proemi degli statuti, deputati quasi sempre a motivare le promulgazioni sia dal punto di vista giuridico sia da quello istituzionale e politico. Sarebbe tuttavia rischioso fermarsi alle dichiarazioni di intenti introduttive, non solo perché fenomeni di emulazione e di adozione di formule rituali - che si diffusero in conseguenza della circolazione di testi e modelli - potrebbero trarre in inganno sulla loro effettiva originalità, ma anche perché non è detto che vi si riportassero fedelmente tutti i moventi effettivi (16). Tanto più che in certi periodi e in certi contesti di più alta enunciazione dell’autocoscienza comunale, la volontà di dare una veste degna che legittimasse anche formalmente la legislazione municipale si espresse in una ricercatezza lessicale tesa a conferire maggior dignità e credito ai contenuti, con l’attenta adozione di eleganti forme retoriche adatte a reggere il confronto con le cancellerie della autorità antagoniste e ispirate a modelli guida (17).

L’immagine politica delle autonomie cittadine fu promossa infatti, fin dal XII secolo e in particolare nel XIII, anche attraverso la “rivoluzione scrittoria”, ovvero quel considerevole incremento di documentazione scritta relativa a tutti i settori dell'amministrazione: normativo, giudiziario, fiscale. La stessa esigenza di legittimazione degli organi partecipativi e delle deleghe che da loro scaturivano induceva alla ricerca di un'arte dello scrivere che desse la misura di un'autorevolezza adeguata (18). La forma scritta era ormai divenuta quella più consona al riconoscimento pubblico e alla convalida di norme, contratti e transazioni, soppiantando con l'obiettività delle scritture i riferimenti alle consuetudini e alla memoria (19), ma la sua stessa artificiosità deve indurre a prudenza nell’interpretazione degli enunciati (20).

Lo si può riscontrare con particolare evidenza proprio nei proemi degli statuti emanati in un clima politico particolarmente acceso, come quello antimagnatizio della seconda metà del Duecento; da essi si può dedurre sia il radicarsi di una tradizione retorica dettatoria sia un'esigenza di convalida ideologica che conferisse un supporto autoritativo alle normative redatte e promulgate nel nome di una fazione (21). Va infatti ricordato in proposito che, in un periodo in cui i conflitti sociali e politici assumevano spesso i toni dell’intransigenza estrema, l’emanazione di un codice normativo non era mai un fatto neutrale e incolore, ma traduceva in deleghe politiche e in dettami vincolanti il programma della parte vincente, con chiare e mirate agevolazioni e restrizioni in chiave interna e sovente con intenti di fattiva solidarietà nei confronti degli alleati esterni. Ciononostante molti codici venivano presentati come super partes e, anche quelli esplicitamente espressi da una fazione, erano introdotti nel nome dell’interesse civico e collettivo e di un presunto generale consenso.

È proprio in chiave politica e di attenzione alle divergenze tra immagine e contenuti che gli statuti manifestano l’intento conservativo che si nasconde dietro i loro proclami innovativi, rivelandosi inequivocabilmente come strumenti di legittimazione, traduzione e stabilità degli ideali, delle condizione e degli equilibri da cui erano scaturiti (22). Essi insomma vennero emanati o riformati il più delle volte per sancire – e quindi fissare - un cambiamento; pertanto, mentre esibivano un’immagine di rinnovamento nell’inaugurare una nuova stagione politica, i loro contenuti erano implicitamente tesi alla conservazione, ovvero a tutelare le condizioni politiche di cui erano espressione (23).

Dunque in origine o all’indomani di riforme sostanziali – specie se ispirate da rivolgimenti - le qualità e le attese politiche insite nei codici statutari erano riposte sia nella loro vigenza - quale attestato di disponibilità di spazi di manovra politica e di confronto con poteri istituzionali concorrenti - sia nei loro contenuti, poiché prescrivere deleghe e competenze, obblighi e divieti con relative sanzioni comporta sempre capacità di indirizzare e incidere secondo specifici orientamenti (24). Ciò indipendentemente dalle dichiarazioni dei proemi, a volte piegati a fornire circostanze e motivazioni dettate da necessità contingenti o da opportunismi di parte (25).

Ma in linea generale col procedere del tempo si ebbe una diversa evoluzione di questi due significati politici. Mentre il valore emblematico di affermazione di capacità di autodeterminazione di fronte agli interlocutori esterni rimase rilevante ed in qualche caso crebbe – come nei patti di dedizione delle città medie e minori durante i processi di formazione degli stati regionali -  in merito all’aspetto politico insito nell’intento normativo, occorre rilevare che non fu sempre così; anzi le ricerche e le analisi sia specifiche sia comparate condotte da Gherardo Ortalli hanno ormai evidenziato un problema della lunga vigenza e dei suoi paradossi (26).

Dapprima pressoché ovunque e per un certo tempo, i codici furono redatti e revisionati con una certa frequenza per perseguire la massima rispondenza tra i loro dettami e le realtà sociali e politiche alle quali erano rivolti, tanto che in origine le loro prescrizioni erano considerate effimere per antonomasia (27). Ma in seguito in molti casi verificati in diversi ambiti regionali (tra gli altri Ascoli, Pesaro, Piacenza, Cittadella, Ala di Trento), man mano trascorreva il tempo tra le promulgazioni originarie e i loro aggiornamenti, il dettato delle rubriche perdeva a tal punto di attualità, da evidenziare incongruenze, anacronismi, errori (28). Evidentemente in questi casi fu la desuetudine a portare alla staticità e al degrado dei contenuti normativi, tanto da richiedere per la loro interpretatio  (29), interventi di tecnici del diritto attraverso le loro glosse e i consilia.

Ciò non si verificò solo laddove la sorveglianza e le continue revisioni furono imposte da situazioni ed evoluzioni peculiari - come la gestione di beni comuni o le dialettiche politiche in aree di confine – che mantennero vivo e reattivo il dettato delle norme, inducendo ad adeguarlo costantemente. Ma anche nei frequenti casi in cui esse si erano irrigidite e sembravano aver perso ogni applicabilità immediata, le aggiunte, le trascrizioni, le traduzioni in volgare e le edizioni a stampa davano il segno di una persistente valenza politica generale, quella appunto che attribuiva alla loro stessa vigenza il significato di una residua capacità di autodeterminazione (30).

Al calo di valore normativo per disuso e per eccesso di anacronismo non corrispose pertanto una diminuzione di valore emblematico. Anzi nella transizione verso gli stati regionali, quando il numero dei fulcri delle dominazioni politico-territoriali si ridusse ad annoverare le capitali sedi delle corti principesche, le comunità cittadine che giocoforza dovevano sottostare alle nuove subordinazioni, chiedevano immancabilmente il riconoscimento dei loro codici, nel tentativo di ottenere l’ammissione di quei margini di autonomia ancora possibili.

Fatte salve le loro prerogative e cassando preventivamente tutto quanto avesse potuto contrastare la propria sovranità, le dominanti erano generalmente propense a concedere tali riconoscimenti, nella consapevolezza che servivano soprattutto ad assecondare lo spirito civico delle comunità soggette, senza suscitarne pericolosi irredentismi. In molti casi si instaurava così una nuova gerarchia del diritto: la soluzione di questioni non compendiate negli statuti o dalle consuetudini locali veniva demandata alla consultazione dei codici del diritto comune solo dopo quella degli statuti della dominante, le cui magistrature e tribunali divenivano fra l’altro le sedi per le ultime istanze processuali.

D’altronde le dialettiche reali tra centri egemoni e subordinati si svolgevano ormai nei rapporti tra la corte e i ristretti noveri delle oligarchie locali che, essendo perfettamente consapevoli di questo gioco delle parti, si facevano promotrici delle approvazioni, avvalorando in chiave interna la loro immagine di alfieri e difensori delle identità civiche, ma anche trovando una conferma autorevole alla propria leadership locale (31). In tal senso molte delle codificazioni di ambito signorile assunsero un nuovo valore politico, quello di riconoscimento del patriziato urbano e delle sue preminenze.

In effetti dunque, visto con un certo disincanto, quel contenuto politico che permaneva e che si ammantava di valori civici aveva una portata ormai quasi esclusivamente simbolica e di interesse limitato, ma non per questo era meno significativo sul piano dell’immagine politica. Nel segno della continuità apparente costituiva l’avallo della transizione che negli stati regionali conferiva un assetto ordinato alle scale gerarchiche dei ceti dominanti delle capitali e delle città soggette, le cui organizzazioni comunali si avviavano ad essere sempre più enti amministrativi e sempre meno enti politici (32).

Che gli statuti e i codici normativi municipali valessero a trasmettere, oltre che l’immagine politica, anche quella etica delle comunità cittadine, lo sostennero già alcuni autorevoli giuristi del tempo. Ricorrendo ad un esempio ben noto, per Alberico da Rosciate: «potest dici statutum quasi statum publicum, seu civitatum, tuens ac defendens. Nam ista statuta communiter fiunt ad tuitionem et defensionem reipublicae et civitatum» (33), ovvero lo statuto appare connaturato allo statum publicum, alla conduzione collettiva e civica per garantirla e difenderla (34). Lo attestano inequivocabilmente anche i loro proemi che espongono quasi puntualmente - fino a volte a far temere un uso puramente rituale - l’intento di garantire equità e ordine per tutti  (35), in modo che «…la justitia se dia et conceda ad omne persona» (36).

Non si tratta di un fenomeno circoscritto solo alla promulgazione statutaria. Si è già ricordato come buona parte della documentazione scritta di carattere pubblico prodotta in ambito comunale tra XIII e XIV secolo si connoti per una particolare cura formale e di immagine (37). In essa rientrava anche l’attenzione ad introdurre con motivazioni etiche, filosofiche, religiose e ideali i contenuti specifici dei documenti, che si presentavano così come gli strumenti di adozione e di tutela dei valori della convivenza e della solidarietà. Anteponendo e accompagnando provvedimenti e norme con similitudini e citazioni dotte, tratte sovente da testi sacri, gli estensori intendevano celebrare quella che è stata definita “l’ideologia comunale” (38), ovvero quel sistema di valori morali e di virtù civili che era considerato sia fonte che sbocco di un regime a larga base partecipativa, capace di promuovere e garantire attraverso gli statuti il rispetto di leggi e di norme nell'interesse comune e l'ordinata suddivisione di funzioni e di deleghe politiche e amministrative.

Naturalmente anche il sistema di valori che veniva proposto dagli statuti non era indiscriminato e indistinto: derivava insieme dagli ideali degli ispiratori e dei promotori della promulgazione e dalla mentalità più generale che conformava a grandi linee il comune sentire del tempo. S’è detto che d’obbligo e comuni a tutti erano i riferimenti ai dettami della religione con frequente ricorso al citazioni di brani di testi sacri. Particolarmente marcati erano i propositi di una nuova morale pubblica che venivano anteposti agli statuti originati da riforme a carattere popolare, nei quali non solo si esaltava la nuova situazione, ma spesso si proclamava l’abolizione dei privilegi e delle ingiustizie (39). Peraltro anche il perseguimento della publica utilitas nel nome della aequitas fu più volte un argomento a sostegno e schermo di operazioni politiche di parte che giustificavano l’intransigenza della fazione vincente nel nome della difesa di un ordinamento capace di garantire l’interesse pubblico (40).

In genere all’avvio di regimi di ispirazione popolare, si interveniva con gli statuti anche nel campo delle procedure penali e civili per garantire il diritto di difesa e l’uguaglianza delle parti davanti al giudice (41), in coerenza con le dichiarazioni di principio tendenti perseguire un’ordinata e pacifica convivenza basata sui principi dell’equità e del diritto naturale (42). 

Anche il riferimento frequente alla libertà assumeva i diversi significati determinati dalle vicende generali e particolari del momento e certo non riconducibili a quelli odierni: dapprima prevalentemente come ideale piuttosto vago di una condizione contrapposta alla tirannide, ma, poi, in seguito alla stabilizzazione degli assetti politici interni, soprattutto e sempre di più come autodeterminazione civica, autonomia collettiva. Di pari passo avanzava l’ideale dell’ordinato convivere di cui divenivano garanti i sempre più selezionati depositari del potere: oligarchie, signori e principi.

L’uso della normativa municipale come strumento di affermazione etica derivata sia dal comune sentire sia da indirizzi specifici e locali ebbe un ampio riscontro nella cosiddetta legislazione suntuaria, ovvero in quell’insieme di prescrizioni che puntavano a regolare i comportamenti esteriori in cerimonie pubbliche e private e a conformare l’abbigliamento femminile ai canoni della morale e della mentalità correnti. Non si trattava solo di moderare eccessi e di reprimere sprechi, ma anche e soprattutto di uniformare gli atteggiamenti esteriori ad un sistema di valori improntato alla conservazione delle distinzioni e dei ruoli vigenti nella società (43).

Trattando degli statuti come strumenti di affermazione di principi politici ed etici non si può ignorare che in alcuni frangenti per i sistemi partecipativi di ispirazione popolare le loro prescrizioni si rivelarono non soltanto illusorie, ma addirittura controproducenti. La necessità di mantenere forme di reciproco controllo tra diverse cariche e funzioni e la continua ricerca dell’efficacia di norme che cercavano di inseguire e regolare realtà in movimento determinarono la progressiva crescita delle disposizioni e della complessità delle architetture amministrative che prefiguravano. In tal modo la rigidità, le complicazioni e le lungaggini che comportavano si trasformarono in ostacoli alla loro realizzazione e divennero il pretesto per scorciatoie istituzionali che diedero progressivo spazio politico alle aristocrazie cittadine. I loro esponenti infatti, approfittando, dell’esigenza di  accelerare le procedure in occasione di urgenti questioni di difesa o di ordine pubblico, parteciparono alla formazione di commissioni ristrette, create in via straordinaria, ma dai poteri sempre più ampi e svincolati da controlli, che ben presto divennero organi istituzionali permanenti e i veri fulcri decisionali del potere cittadino (44).

Pertanto col declino dell’istituzioni comunali indotto dalla progressiva selezione dei partecipanti alla gestione del potere, anche la funzione delle promulgazioni statutarie mutò radicalmente, perdendo gran parte di quella patina innovativa con cui erano state giustificate in origine e assumendo ancor di più finalità di conservazione e di adattamento ai nuovi equilibri. Lo stesso arbitrium che attribuiva operatività e adattabilità alla potestas statuendi degli organi e degli ufficiali pubblici, divenne lo strumento dei nuovi signori per intervenire in tutti i settori, revocando, autorizzando e riformando al fine di conservare l’assetto politico raggiunto. In questo senso si è potuto parlare di una vera e propria politica del diritto, ovvero di un consapevole uso degli spazi previsti dagli statuti vigenti per sancire i mutamenti politici maturati nel frattempo (45).

In genere si operò per un cosciente e sistematico svuotamento della valenza politica dell’architettura comunale e di riflesso delle norme statutarie che la regolavano, non tanto attraverso la rimozione delle magistrature, ma selezionandone l’accesso in base alle garanzie di fedeltà ai vertici che sapevano esibire i candidati, restringendo quindi l’effettivo spazio decisionale alla volontà politica dei veri depositari del potere.

Sul piano etico a fornire l’immagine dell’ordinato convivere delle città signorili, molto più idonei ed efficaci degli statuti erano ormai da tempo i grandi progetti di ristrutturazione e innovazione urbana secondo i canoni delle città ideali, che peraltro non tardarono di avere riscontri nelle nuove redazioni statutarie di cui costituirono spesso le parti più aggiornate e dettagliate.

In linea generale si può così rilevare il raggiungimento del massimo grado della divaricazione tra l’immagine politica esibita con gli statuti e la loro effettiva portata; una divaricazione dapprima insita nella naturale disparità che vi è sempre tra enunciati normativi, spesso altisonanti, e loro effettiva efficacia, ma poi accentuata, soprattutto nei casi di progressiva e ingente perdita di attualità, dalla permanenza o addirittura dall’accentuazione del loro valore emblematico. Di tale divaricazione dovettero essere ben consapevoli molti dei protagonisti della vita politica del tempo che a volte giunsero a utilizzare la promulgazione o l’approvazione di statuti come strumenti di propaganda, presentandosi ora quali paladini dello spirito civico o ora quali magnanimi concessori nei confronti delle istanze locali. 

Necessariamente del fenomeno statutario cittadino si è fornito qui un quadro generico, tratto da una presunta evoluzione generale e astratta, trascurando l’esigenza di contestualizzare le diverse manifestazioni secondo ripartizioni geografiche e scansioni cronologiche. In effetti troppe volte gli statuti cittadini sono stai visti e proposti in una prospettiva indistinta ed appiattita che impedisce di comprenderne le reali differenziazioni sia nei moventi politici sia nei loro esiti (46).

Anche da parte di numerosi esponenti della storiografia giuridica si è già più volte ammesso che questa omologazione - che fra l’altro riserva un ruolo subordinato e marginale a tutto il diritto particolaristico – è frutto di una distorsione interpretativa. In effetti la centralità che negli studi sul diritto hanno avuto la dottrina e i suoi maestri aveva spesso indotto a considerare gli statuti solo alla luce degli sforzi dei glossatori di inserirli a posteriori nel sistema giuridico attivato col recupero e l’interpretatio degli antichi testi civilisti e canonici. Ciò ha portato a considerarli  una sorta di appendice del diritto comune e a trascurare la loro specificità come rivelazioni autonome di precise esigenze e volontà politiche (47).

Se è innegabile che con il generalizzarsi delle loro promulgazioni i codici statutari manifestarono frequenti fenomeni di emulazione e di uniformazione, è altrettanto certo che la loro produzione fu una delle manifestazioni della forza propulsiva che le comunità cittadine nel loro sviluppo seppero esprimere in tutti i campi. Lo attestano gli studi comparativi su tutte le normative locali intrapresi dagli storici negli ultimi decenni che fra l’altro rivelano analoghe volontà di dotarsi di strumenti di autonomia politica anche ben al di fuori dell’ambito più propriamente definito comunale. A riprova del loro valore politico ed etico sono proprio i riscontri sulle loro capacità di incidenza, estremamente variabili e strettamente dipendenti dalle condizioni di ogni contesto spazio/temporale, nonché dalle effettive disponibilità di potere e dalla dislocazione dei suoi fulcri. Importante sarebbe quindi valutare caso per caso divaricazione l’effettiva portata che offrirono sul piano politico e l’immagine di cui si ammantavano. Di certo ovunque i codici normativi contribuirono a conferire alla città quella di realtà avanzate, in grado di proporsi a lungo come guida nei modelli di convivenza.

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1) Che nel campo semantico dei sinonimi che ruotano intorno al termine statuto vi sia quello più riduttivo di “leggi municipali” è un’inequivocabile attestazione dello stretto legame che intercorse tra fenomeno urbano e la comparsa di buona parte delle promulgazioni normative che si comprendono nel “diritto proprio”.

2) Se il riferimento comune fosse davvero il diritto a base giustinianea, generalmente definito diritto comune, o se sia stata la dottrina sviluppatasi ad opera delle scuole giuridiche ad inquadrare la molteplicità delle normative locali è oggetto di dibattito da molto tempo. In proposito: Caravale, Ordinamenti giuridici, pp. 301-319. Ancora oggi prevale tra i giuristi la convinzione che gli iura propria, pur essendo espressione del particolarismo, non fossero in antagonismo col diritto comune, ma valessero a sua integrazione, come elementi peculiari di un  tessuto globale. Ad esempio: Grossi, L’ordine giuridico medievale, p. 54. 

3) La produzione statutaria trasse allora impulso anche dal contestuale raggiungimento di un elevato grado di autocoscienza civica. Non a caso si può chiaramente verificare una concomitanza di fondo tra la comparsa delle laudes civitatum e l’emanazione dei primi codici statutari.

4) Certe definizioni generali elaborate dagli storici del diritto si presentano dotate di un'indubbia suggestione, ma a volte appaiono inficiate dall'appiattimento delle analisi in una sorta di clima da laboratorio, fuori dallo spazio e dal tempo; ad esempio l’affermazione che «…la costituzione [giuridica] medievale non è articolata in un arcipelago di sovranità, ma in un tessuto di autonomie… » (Grossi, Un diritto senza stato, pp. 282-283) può essere considerata valida solo per ambiti e periodi circoscritti del millennio medievale. Questa visione ad un tempo analitica e limitata, incapace di tener conto delle varianti spaziali e cronologiche è stata alla base di una sottovalutazione generale da parte dei giuristi nei confronti del fenomeno statutario, visto come versione ridotta e particolaristica della storia giuridica. Per la comprensione del fenomeno sono state pertanto decisivi quegli atteggiamenti metodologici degli storici e degli  storici del diritto che hanno voluto inserire le promulgazioni, la vigenza, le ratifiche, le trasformazioni statutarie nei loro specifici contesti. Su quest’esigenza di distinzione: Chittolini, La validità degli statuti cittadini, pp. 47 – 48.

5) Per una rassegna su questi temi e sulla letteratura relativa: Caravale, Ordinamenti giuridici, passim.          

6) Un'articolazione in fasi successive di tutto il periodo evolutivo del diritto comune (XII - XIX secc.) fu proposta dal Calasso: la prima fase dal (XII-XIII secc.) con “predominio del diritto comune sopra ogni altra fonte concorrente”; la seconda (XIV e XV) definita come “periodo del diritto comune sussidiario”; la terza iniziata nel XVI secolo e definita come “periodo del diritto comune particolare”: Calasso, Introduzione al diritto comune, pp. 125 e segg.

7) Gli statuti comunali furono infatti promulgati in evidente contrasto con la dottrina del diritto a base giustinianea che riconosceva solo al sovrano la facoltà di legiferare e pertanto furono talvolta considerati degli abusi da parte di alcuni dei dottori del diritto dello Studio bolognese e delle altre sedi universitarie che si andavano moltiplicando nell'Europa del tempo. Peraltro tra dottori del diritto e statutari si passò spesso dalla diffidenza alla collaborazione, tanto che molti dottori contribuirono alla stesura e alla revisione dei codici statutari. Alla collaborazione si giunse anche in conseguenza del forte declino di prestigio e di efficacia dell'autorità imperiale. Già a partire dalla seconda metà del XII secolo i dottori bolognesi si occuparono sia del diritto feudale sia di quello statutario. Su tali temi vedi Sbriccoli, L'interpretazione dello statuto, passim. Benché si riferissero ad ambiti diversi, il diritto particolare (ius proprium) e quello generale (ius comune) erano in continua intercomunicazione, in quanto il primo derivava almeno in parte dal secondo. La ricerca di accordo tra diritto universale e particolare fu alla base di un’intensa circolazione di esperti in materia, dottori, notai e podestà. Del resto l’interpretatio rimane base e procedimento comune a tutto il diritto, generale e particolare che fosse.

8) Grossi, Un diritto senza stato, pp. 282-283.

9) L’avallo degli statuti da parte della dottrina può essere pertanto considerato uno dei più rilevanti tra gli innumerevoli episodi che nella storia del diritto hanno visto affermarsi aspetti funzionali e legati alla prassi, in deroga o a completamento delle preesistenti formulazioni teoriche generali. Ciò detto, occorre però precisare che la vigenza degli statuti non può essere considerata un’innovazione in assoluto, dati i suoi frequenti legami con le consuetudini locali e le relative ascendenze che risalivano ben oltre la riscoperta del diritto comune.

10) Come affermato da Mario Sbriccoli «…il solo fatto di darsi uno statuto fu, per lunghissimo periodo, un atto politico di grande importanza». Già nella fase di formazione dei comuni la funzione di protezione degli ordinamenti cittadini e di tutela dell'autonomia dalle ingerenze imperiali, conferiva allo statuto un significato politico che andava oltre le ovvie implicazioni normative. Come ogni attività legiferante, l'operazione politica che si traduceva negli statuti si compiva in tre momenti: l'individuazione dei problemi; la soluzione legislativa; l'aggiornamento interpretativo. L'uso politico dello statuto da parte dei gruppi che si alternarono alla guida del comune fu preventivo al momento della legislazione e successivo attraverso l'interpretazione, ovvero l'adattamento delle norme alle nuove realtà (Sbriccoli, L'interpretazione dello statuto, pp. 26 e segg.

11) È opportuno ricordare che con potestas statuendi non si intende solo la facoltà di fissare regole in codici normativi validi per tutta la comunità, ma anche quella successiva e perdurante di prendere decisioni da parte degli ufficiali previsti dagli statuti, i quali pertanto avvalendosi dell'arbitrium loro conferito potevano aggiornare, adeguare e comunque interpretare il contenuto dei codici. In tal senso si può affermare che «ius dicere e statuere non sono operazioni necessariamente distinte »: Meccarelli, Statuti, “potestas statuendi”  e “arbitrium”, p. 109.    

12) Per Bartolo «utilitas publica praefertur privatae ».

13) Non si trattava quindi di un arbitrio illimitato – paragonabile a quello di un tiranno - ma di quello consentito nel solco del sistema giuridico comune e generale per accordare la complessità del diritto alla multiformità delle diverse realtà. Secondo un’interpretazione ancora comune tra i giuristi, con l’arbitrium si perseguiva la flessibilità necessaria a modellare concretamente la normativa alla quotidianità. Evidentemente questa visione riserva al diritto il ruolo di parametro fondamentale rispetto al quale la realtà è subordinata, a differenza delle interpretazioni più globalmente storiche, che implicitamente considerano il diritto un derivato della vita associata e delle sue varianti ed evoluzioni. Secondo Bartolo – che comunque, va detto, lo definiva e lo prefigurava sulla base delle normative vigenti e dentro i canoni del diritto giustinianeo e che quindi lo considerava uno strumento per adattare la normativa sia alla mutevole realtà quotidiana sia al diritto comune -  l'arbitrium si manifestava in tre modi: 1) quello molto esteso (multum latum) super bono et pacifico statu civitatis o super custodia civitatis, ovvero quello a tutela della pace interna, considerato il bene supremo, e che si avvaleva principalmente dell'arbitrium officialis; 2) quello super abundantia habendi in civitate, che era strumento per garantire gli approvvigionamenti e le attività produttive e commerciali dei beni essenziali 3) quello ut pecunia veniat in communi, che conferiva competenze per l’accertamento e la riscossione dei tributi: Bartolus a Saxoferrato, In secundam Digesti, n. 8. Sul tema, fra gli altri: Meccarelli, Statuti, “potestas statuendi”  e “arbitrium”, pp. 96-105.

14) Secondo questa visione unitaria lo statuto appare una fonte del diritto inserita nel diritto comune che richiede “una mediazione creativa”… e  «Il particolarismo giuridico del comune è quindi il risultato di una complessa catena di produzione non della sola norma statutaria »: ibidem, p. 113. Almeno rispetto alle prime promulgazione se ne può rilevare una sorta di inversione cronologica e causale che depone per una certa deformazione indotta dalla centralità attribuita alla dottrina.

15) Per i giuristi la potestas statuendi e l'arbitrium su cui essa si basava consentivano di intervenire anche sugli statuti già vigenti. Secondo Bartolo e Baldo ciò poteva avvenire solo per giusta causa - come in occasione e in casi non previsti dalla precedente normativa (arbitrium super casibus novis) - e ad opera di istituzioni assembleari, quindi come aggiornamento a nuove esigenze, ma a corollario e a conferma sostanziale e complessiva della normativa vigente (ibidem, vedi nota p. 110) .

16) Già sotto questo aspetto si evidenzia una differenza tra immagine e contenuti a livello politico.

17) Adottando il più autorevole linguaggio dei contendenti – quello delle cancellerie imperiali e pontificie ad esempio - si puntava ad eguagliarne automaticamente il valore paradigmatico sul piano formale per poi aggiungervi quello sostanziale delle motivazioni etico-religiose che erano alla base di ogni atto. Con la ricercatezza stilistica si andava quindi ben oltre la dimensione formale, poiché si tendeva ad avvalorare atti pubblici e provvedimenti che gli organi comunali emanavano attribuendosi un potere legiferante e normativo.

18) Su questi temi vedi tra gli altri Giansante, Retorica e politica nel Duecento; Tamba, Una corporazione per il potere, p. 331; Bartoli Langeli, La documentazione degli stati italiani nei secoli XIII-XV, pp. 48- 53; Le forme della propaganda politica nel Due e nel Trecento; Maire Vigueur, Révolution documentaire et révolution scripturaire, pp. 177-185; Milani, Il governo delle liste nel comune di Bologna, pp. 149-229.

19) La sensibile intensificazione nella produzione scrittoria nel corso del XIII secolo fu anche dovuta all'ascesa delle categorie professionali legate alla mercatura e alle sempre più intense attività di servizio dei cambiatori e dei notai, che come professionisti dell'attestazione scritta sia pubblica che privata, assunsero un particolare rilievo sociale e politico. In questa fase di transizione talvolta e ancora per qualche tempo dispute e conflitti di interesse tra diverse comunità o tra persone singole si svolsero facendo riferimento a sistemi e modelli probatori differenti: quello ancora trasmesso per tradizione di testimonianza orale su prassi consolidate dal tempo e dall’uso e in via di superamento, e quello codificato che traeva validità proprio dalla documentazione scritta.

20) Anche a livello dottrinale fu la iurisdictio nella sua forma codificata a risolvere il problema della legittimazione  del potere politico espresso dalle comunità cittadine, mentre l'arbitrium conferì duttilità e applicabilità a tale potere: Meccarelli, Statuti, "potestas statuendi"  e "arbitrium", p. 114.

21) Vallerani, L’amministrazione della giustizia a Bologna in età podestarile, pp. 291-316.

22) Un aspetto conservativo si può rilevare anche nelle architetture istituzionali che prefiguravano, in quanto solo in occasioni di riforme molto radicali si mutavano le cariche previste in precedenza; in genere invece, anche in occasione delle svolte politiche che presiedevano la promulgazione di nuovi statuti, esse venivano mantenute, cambiando semmai il novero di chi vi poteva accedere, le procedure e la durata dell'incarico. In pratica il mutamento non riguardava i contenitori della struttura amministrativa, ma i loro contenuti.

23) Era questa la funzione precipua dell'arbitrium super bono et pacifico statu civitatis.

24 Così come al contrario lasciare spazi di indeterminatezza conferisce discrezionalità e potere ai depositari delle decisioni.

25) Un esempio particolarmente calzante è stato fornito da Gherardo Ortalli a introduzione del suo paradigmatico e avvincente saggio su lo statuto tra funzione normativa e valore politico (Ortalli, Lo statuto tra funzione normativa e valore politico, pp. 11-35).

26) Ortalli, L'outil normatif et sa durée, pp. 163-173.

27) Notissime le forme proverbiali riportate in Calasso, Medioevo del diritto, I, Le fonti, pp. 425: «legge di Verona dura da terza a nona»; «legge fiorentina, fatta la sera, è guasta la mattina». Petrarca lamentava la ciclica fine delle norme municipali e Dante: « fai tanto sottili/ ch'a mezzo novembre / non giugne quel che tu d'ottobre fili ».

28) Ortalli, L'outil normatif, pp. 164-165.

29) Secondo lo Sbriccoli l 'interpretazione delle norme statutarie fu una delle funzioni principali dei giuristi, che vi trasponevano le loro mentalità, i loro atteggiamenti, le loro ideologie, conferendo alle loro opzioni un carattere fortemente politico, tratto non solo dalle teorie dottrinarie quanto dalle convinzioni ideali.  Da questo punto di vista evidentemente il decadere del valore politico delle norme originarie di uno statuto era compensato dall'azione interpretativa degli esperti che ne aggiornavano i significati secondo i propri orientamenti, ed era l'interpretatio a conservare attualità politica (Sbriccoli, L'interpretazione dello statuto).

30) Ementationes, statuta contraria, renovationes confluivano a plasmare un corpus statutorum quale risultato di lotte politiche interne ed esterne in cui lostatuto non era solo un risultato, ma anche uno strumento di tali lotte: ibidem.

31) Jean Claude Maire Vigueur ha in proposito parlato di progressiva “aristocratizzazione” delle istituzioni comunali sul finire del Trecento: Maire Vigueur, Comuni e signorie in Umbria, Marche e Lazio, p. 470.

32) Da questo punto di vista appare in fondo naturale la crescente disattenzione nei confronti dei contenuti specifici dei codici statutari e quindi il riscontro di incongruenze.

33) Alberici de Rosate, Commentariorum de Statutis, T.U.I., II, Venetiis 1585, q. 1, f. 2r.

34) La funzione di far prevalere il vantaggio collettivo e pubblico su quello individuale e privato venne d’altronde avvalorata dal noto commento di Bartolo: «facere statuta est jurisdictio in genere sumpta» (Bartolus a Saxoferrato, Commentaria in Primam Digesti Veteris Partem, n. 3, f. 9v) che attribuiva la facoltà di fare statuti nel nome dell’interesse generale.

35) Appare scontato che quasi tutti gli statuti proclamassero di propugnare una normativa consona alla pacifica convivenza, capace di garantire il rispetto della legge e dei suoi custodi, che con correttezza e prontezza avrebbero dovuto reprimere i reati a garanzia dell’ordine pubblico e del decoro collettivo.

36)  Storti Storchi, Caratteri della giustizia negli statuti di Ascoli Piceno del 1377, p. 39; Ortalli, Lo statuto tra funzione normativa e valore politico, p. 15.

37) Un'immagine curata anche attraverso la “veste grafica”, che assunse sempre di più le forme e il decoro di miniatori famosi e ricercati le cui raffigurazioni erano a loro volta foriere di particolari significati. Riprodurre i patroni cittadini in un certo ordine o con certo rilievo ad esempio era spesso sintomo della temperie politica del momento.

38)  Giansante, Retorica e politica nel Duecento.

39) I caratteri peculiari degli ordinamenti popolari consistevano nella divisione delle funzioni deliberanti tra molti organi di tipo collegiale, con frequenti interferenze e sovrapposizioni nelle nomine e nelle competenze per favorire reciproci controlli, nell'intento di garantire rappresentatività alle componenti socioeconomiche che erano parte del popolo e nel contempo scongiurare che qualche organo o funzionario potesse assumere un ruolo troppo egemone. Si trattava di «un'organizzazione… fortemente integrata e “piramidale” »… (Storti Storchi, Caratteri della giustizia negli statuti di Ascoli Piceno del 1377, p. 47).   

40)  (Sbriccoli, L'interpretazione dello statuto).

41) In precedenza o in mancanza di simili riforme, i regimi cittadini e i loro statuti riflettevano le sperequazioni sociali interne anche in campo giudiziario e mantenevano forme di iniquità scapito dei diritti della difesa. Nelle terre della Chiesa ad esempio il diritto all'appello contro le sentenze civili e penali di primo grado fu propugnato dal diritto canonico e dalla legislazione pontificia. Le stesse costituzioni egidiane, recependo una norma del 1262 di papa Urbano IV, previdero che fossero i tribunali provinciali le sedi dei ricorsi in appello in cui offrire la possibilità di contrastare eventuali sentenze ingiuste dei tribunali cittadini (Costituzioni egidiane, pp. 14-16).   
    
42) Generalmente col tempo le successive redazioni reintroducevano condizioni di privilegio che assecondavano le nuove preminenze sociali ed economiche, ma in alcuni casi le norme di ispirazione popolare permanevano a lungo.  Ad Ascoli, ad esempio, il «… tentativo di abbattere gli strumenti di prevaricazione di una società organizzata sulla base dell'egemonia di pochi e il sistema dei rapporti giuridici ad essa connaturato…[superò il] … mutamento delle condizioni economico e sociali che avevano dato l'avvio alla conquista del Comune da parte del partito popolare… [e] … le disposizioni con esso connesse finirono per staccarsi dalla matrice politica che li aveva generati e rimasero cristallizzati nello jus proprium »: Storti Storchi, Caratteri della giustizia negli statuti di Ascoli Piceno del 1377, pp. 56-69.

43) Per un aggiornamento sugli studi in merito vedi il repertorio delle fonti suntuarie per l'Emilia- Romagna a cura di M. G. Muzzarelli. Si tratta della prima raccolta operata dal gruppo di lavoro nazionale sulle fonti suntuarie emanato nel 1996 dal Comitato Italiano sugli Studi e le Edizioni delle Fonti Normative

44) Lo si può riscontrare in numerose vicende cittadine, quando consigli ristretti dotati di potere deliberante (balìa), giunsero ad esautorare - dapprima temporaneamente e in parte e poi permanentemente e in tutto – gli organi ordinari

45) Un esempio di questa trasformazione del valore politico degli statuti è stato rilevato da Massimo Meccarelli in relazione ai divieti di petere arbitrium, ovvero di chiedere o ricevere poteri arbitrari superiori a quelli concessi dagli statuti, divieti rintracciabili in codici promulgati in tutta l'area comunale. Motivati in origine per evitare eccessive concentrazioni di potere o intromissioni esterne e quindi per arginare l'invadenza signorile, divennero forme di tutela dei poteri acquisiti dai nuovi potenti: Meccarelli, Statuti, “potestas statuendi” e “arbitrium”, pp. 114-115. Proprio questa opportuna rilevazione segnala la necessità di contestualizzare le promulgazioni senza pretendere di vederle come appartenenti al sistema giuridico universale dove «…trovano nella scientia iuris un’elaborazione teorica ordinante, integrante e generalizzante » (ibidem, pp. 119-124). Questa immagine di una simbiosi senza contraddizioni tra particolare e universale si rivela poco sostenibile, quasi che nel medioevo si fosse davvero realizzato un sistema universale di pacifica convivenza tra istituzioni centrali e periferiche.  Un confronto con normative cittadine emanate fuori del contesto del diritto comune potrebbe far luce sull’effettivo rapporto tra arbitrium e normativa locale, in particolare se esso nasca dall’esigenza di conformare la dimensione particolare ad un ipotetico diritto universale – come sostenuto da buona parte dei giuristi – o se non sia soltanto l’espressione più ovvia di una naturale volontà di autodeterminazione che solo a posteriori i dottori del diritto seppero inserire nel quadro del diritto comune. Fondamentali appaiono comunque sia l’attenzione alle diverse congiunture da cui gli statuti scaturirono e transitarono sia le verifiche su altre fonti dell’effettiva rispondenza delle norme statutarie.    

46) È quanto può risultare da analisi di tipo teoretico e quasi strutturalista che vedono lo statuto come elemento a se stante nel panorama giuridico medievale (e perciò in posizione subordinata e minore rispetto al diritto comune). Vi si è contrapposta la visione più ampiamente storica che inserisce gli statuti nei loro contesti,come elementi e strumenti dei processi politici più generali. Promotori di questa visione, tra gli storici, i grandi maestri, come Mor, la Fasoli, e alcuni dei protagonisti della storiografia odierna, Bocchi, Chittolini, Cortonesi, Ortalli, Varanini, e tra gli storici del diritto, Ascheri, Caravale, Pene Vidari, Piergiovanni, Sbriccoli, Savelli, Storti Storchi.

47) Naturalmente non per questo si tratta di “quisquilie”, come si è sostenuto da parte degli esponenti più "rigidi" della vecchia prospettiva, ma di elementi da valutare nella loro effettiva portata, indagandone motivazioni ed esiti in un più ampio quadro di comparazione con altre fonti.  Vedi in proposito Dondarini, Prefazione, in La libertà di decidere, pp. 7-11.

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Alberici de Rosate, Commentariorum de Statutis, T.U.I., II, Venetiis 1585, q. 1, f. 2r.
Bartoli Langeli A., La documentazione degli stati italiani nei secoli XIII-XV: forme, organizzazione, personale, in Culture  et idéologie dans la genèse de l’état moderne, Roma 1985, in particolare pp. 48- 53.
Bartolus a Saxoferrato, Commentaria in Primam Digesti Veteris Partem, Lungduni 1555, Comm. in D. 1,1,9 D., De justitia et iure, Omnes populi, nr. 3, f. 9v
Bartolus a Saxoferrato, In secundam Digesti novi partem commentaria. Venetiis 1580, I Ambitiosa, tit. De decretis ab ordine faciendo, n. 8.
Calasso F., Introduzione al diritto comune, Milano 1951.
Calasso F., Medioevo del diritto, I, Le fonti, Milano 1954.
Caravale M., Ordinamenti giuridici dell’Europa medievale, Bologna 1994.
Chittolini G., La validità degli statuti cittadini nel territorio (Lombardia, sec XIV – XV), in «Archivio storico italiano», CLX (2002), pp. 47 – 48.
Costituzioni egidiane, ed. Sella, lib. I, rubr. 7: De non habendo judicem appellationum vel exgravatores sine licentia Sedis Apostolicae.
Dondarini R., Prefazione, in La libertà di decidere. Realtà e parvenze di autonomia nella normativa locale del medioevo, Atti del Convegno Nazionale di Studi (Cento, 6-7 maggio 1993), a cura di R. Dondarini, Cento 1995, pp. 7-11.
Giansante M., Retorica e politica nel Duecento. I notai Bolognesi e l'ideologia comunale, Roma 1999, (Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Nuovi Studi Storici, 48.
Grossi P., L’ordine giuridico medievale, Bari 1995.
Grossi P., Un diritto senza stato (la nozione di autonomia come fondamento della costituzione giuridica medievale), in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno », XXV (1996), pp. 282-283.
Le forme della propaganda politica nel Due e nel Trecento, a cura di P. Cammarosano, Roma 1994.




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